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Quando ridi sei sempre in compagnia ma quando piangi...piangi da solo.

lunedì 4 maggio 2009

Storia di un piccolo Clown

C’era una volta, ma in fondo ancora c’è, un piccolo Clown, dai capelli ricci e gialli, il solito naso rosso e il vestitino colorato.
Il clown era portatore sano di gioia e allegria per la città.
Il suo contagioso buon umore accendeva sorrisi e metteva in fuga la tristezza.
Non chiedeva nulla, solo un sorriso.
Viveva in un prefabbricato piccolo e colorato a tre Km dalla città, abbandonato ormai da tempo. Dormiva su un materasso di foglie di granturco e si copriva con pezzi di lana trovati qui e là. Una nonnetta che abitava in città, ogni mattina lo aspettava per offrirgli fette di ciambellone al cioccolato e un bicchiere di latte e questo gli bastava per ricaricare lo spirito ogni giorno.
Passava la mattina presto per la via dei mercati e salutava tutti i commercianti con un: “Salve!”
Era pronto a danzare nei giardini comunali intorno agli innamorati per rendere magica l’atmosfera.
Camminava tutte le mattine sotto le scuole per salutare insegnanti e alunni.
Era sempre disponibile a scambiare quattro chiacchiere con le mamme che andavano a fare la spesa.
Se vedeva una persona su una panchina da sola e triste andava lì per cercare di tirarla su di morale.
Per il piccolo clown il mondo era un parco giochi e lui si girava tutte le giostre.
Un giorno era vicino al Palazzo di Giustizia e vide un uomo tutto vestito di nero dallo sguardo accigliato e il passo veloce.
Lo seguiva con lo sguardo mentre costruiva insieme a Clochard due ali di carta. Lo vide entrare nel Palazzo e pensò: “ Come è triste quell’uomo”
Il suo amico Clochard lo guardò intensamente e gli disse: “ Allora ti sei fermato?”
“Oh no, solo pensavo che…”
“ Non pensare piccolo Clown e aiutami a finire queste ali”
Improvvisamente ebbe come un incubo: cominciò a notare che tutti gli uomini e le donne che passavano di lì per andare nel Palazzo entravano ed uscivano con la stessa espressione accigliata di quel signore di prima. Alcuni erano pure tanto preoccupati e allora chiese a Clochard:
“Ma sono nuove queste persone?”
“No, ci sono sempre state!”
“ Ma che ha fatto questa gente perché non ride mai?”
“ Non hanno alcun motivo per ridere”
“ Ne sei sicuro?”
“ Non mi pongo il problema.”
Costruite le ali per il suo amico, trasecolato, cominciò a girare la città e per la prima volta in vita sua si accorgeva di quanti accigliati c’erano in città.
Scoprì che c’erano molte persone vestite di scuro che camminavano preoccupate per la città. Persone che avevano un gran privilegio: la possibilità di aiutare chi era ammalato, chi ingiustamente accusato dalla società, o i bambini che dormivano al freddo.
Perché erano così tristi? Strano!
L’ingenuo Clown la mattina seguente si fermò sotto l’androne dell’ospedale e aspettò un dipendente qualunque del servizio sanitario perché voleva sapere il motivo della tristezza di queste persone e se avesse potuto rallegrarle. Passò una giovane donna vestita con un camice bianco e pensò subito che fosse una benefattrice della salute; con grazia la fermò e le disse:
“Buongiorno!”
“ Ma che vuoi? Sei scappato da psichiatria?”
“Io no!”
“Adesso mi sentono quei babbei!”
Se ne andò correndo e furiosa, non era chiaro se fosse più furiosa o se corresse di più.
Allora il Clown pensò di cambiare aria e andare davanti al Palazzo di Giustizia.
Si mise davanti al portone e fermò il primo accigliato vestito di scuro:
“Buongiorno!”
“ Non ho soldi da darti!”
“ Ma io..”
“Uh non ho tempo da perdere!”
E anche questo signore era strano.
Allora pensò di recarsi al Comune per avvertire i simpatici amministratori della città. Mentre correva verso il Municipio pensava preoccupato:
“Loro devono sapere cosa sta accadendo e sicuramente risolveranno la situazione.”
Arrivò davanti al Municipio ed entrò; chiese subito affannosamente ad un signore che era lì seduto:
“Devo dire una cosa importante al comandante della città!”
“ Al sindaco?”
“Si chiama Sindaco?”
“Sì, ma adesso è impegnato, prova al secondo piano stanza TRE”
“Grazie!”
Salì di fretta le scale e entrò nella stanza tre ma dopo averlo guardato con aria di sufficienza lo ammonirono:
“ Fai la fila come gli altri!”
“Oh mi scusi”
“Maleducato”
“ Ma io devo parlare con il sindaco e devo dirgli una cosa importante”
“ Se hai perso il circo il sindaco non può fare niente! AH, Ah!”
“Non ho perso il c…”
“Fuori!! Fai la fila”
Fece un’ora e mezza di fila e poi capì che l'arpia allo sportello non poteva fare nulla se non prenderlo in giro.
Allora si mise su una panchina ad aspettare il sindaco.
Chiedeva a tutti quelli che entravano e uscivano di lì:
“ Tu sei il sindaco?”
Ma non riuscì ad incontrarlo.
Intanto vedeva che le persone diventano sempre più accigliate più strane.
Pensava: “ Ma come mai non me ne sono accorto prima?”
Provava a salutare le persone e a sorridergli ma niente, lo guardavano come se fosse un pazzo.
Rimase seduto su quella panchina per alcuni giorni. Poi improvvisamente si fermò una ragazza bellissima e gli disse:
“ Ciao piccolo Clown”
“Ciao”
“Cosa hai fatto non sorridi più!”
“Che sorrido a fare in un mondo dove nessuno sorride più?”
“ Ma il mondo è sempre stato così; sei tu che non sorridi più, non il mondo!”
Il Clown si girò la guardò e le chiese:
“Sai perché le persone che hanno il privilegio di aiutare gli altri sono tristi?”
“ Come aiutare gli altri?”
“ Guarire le persone, aiutare chi è stato ingiustamente accusato e altro.”
“Ah! Tu parli di Avvocati, dottori e via dicendo?”
“ Non so il loro nome”
La bella ragazza lo guardo intensamente quasi commossa dalla ingenuità del clown, mentre insisteva:
“ Tu sai perché?”
“Dovresti chiederlo a loro”
“Ho provato ma è impossibile, vanno di fretta, sono agitati, sempre arrabbiati e a volte sono anche offensivi.”
“Forse perché…. non lo so”
La bella ragazza si alzò lo salutò e andò via.
Dopo un po’ arrivarono due ragazzi con una bottiglia di birra in mano e un po’ brilli.
“ Ciao piccolo clown!”
“Ciao!”
“ Ma tu non cresci mai rimani sempre piccolo, vai in giro ancora a fare il clown?”
“ Ma io sono un clown!”
“ Quando la finirai di farti prendere per i fondelli dalla gente?”
“ Perché mi prendono per i fondelli?”
“ Tu che pensi? Ah, Ah!”
“ Io non mi ponevo questo problema fino a che non siete arrivati voi!”
“ Piccolo Clown non ti sembra ora di crescere?”
“ Crescere? In che senso?”
“ Ma sei ritardato? Crescere, diventare adulti, trovare un lavoro, sposarsi avere dei figli, giocare al lotto e sperare di vincere tanti miliardi che ti cambiano la vita.”
“Ma a me dei soldi non importa!”
“ Tutti così dicono e poi invece quelli fanno girare il mondo.”
“ Io non so cosa fa girare il mondo ma a me importa solo ridere e godermi il periodo di tempo su questa terra e far ridere anche gli altri.”
“Ma a chi fai ridere tu, sei patetico, vai in giro rompendo le scatole a tutti. Se io non voglio essere allegro non puoi obbligarmi, mi dai pure fastidio.”
“ Oltre a prendermi in giro io rompo pure le scatole?”
“ Sei inutile tu per tutti”
“ Credi davvero?”
“ E’ così”
“ Ma sei tu a pensarlo?”
“ Tutti lo pensiamo. C’è una soluzione: adattati e cresci. Non desideri anche tu un’automobile?”
“No”
“Una casa?”
“ C’è un tetto che mi protegge”
“ Cosa quella baracca?”
“ Io sono felice così.”
“La tua felicità durerà ancora per poco, perché lì il Comune sta per farci una discarica.”
“ Ed io non posso rimanere lì?”
“ Una discarica è tossica, è immondizia”
“ Se è tossica perché la fanno?”
“ A me non frega niente, ma tu non puoi stare lì. La butteranno giù la tua casa.”
“ Ma tu come fai a sapere tutte queste cose?”
“Mio padre è il sindaco di questa città”
“ Come può il sindaco essere padre di un ragazzo come te?”
“ Perché lui è peggio di me!”
“ Non ci credo”
“ Perché non dovresti?”
“Allora a lui non interessa che le persone siano tristi?”
“Non gliene può fregare di meno.”




Il piccolo Clown, si alzò dalla panchina, triste e sconsolato, e cominciò a camminare, camminare e ancora camminare.
Non gli importava nulla del mondo voleva uscire da quel parco giochi, perché non era divertente era macabro.
Improvvisamente si accorgeva di come era putrido il mondo. Ma perché?
“Ma che ci faccio io qui?”
Si chiedeva.
“Chi rende il mondo così?”
Realizzò alla fine:
“Se tutti gli esseri umani sono così anche io diventerò come loro?”
Dormì in un bosco. Sotto un albero.
Aveva fame tanta fame. Si guardò intorno e vide un albero di frutta e pensò:” Per un po’ posso rimanere qui. C’è anche un ruscello”.
Dopo un po’ di tempo si era abituato a dormire sotto le stelle, a mangiare solo frutta e bere acqua del ruscello ma ad una sola cosa non riusciva ad abituarsi: la solitudine.
Gli veniva da piangere, si sentiva abbandonato e triste. Non era vita quella. Era sopravvivenza.
Pensò ad un fatto: “Se torno in città mi sentirò lo stesso solo.”
Come disse il figlio del sindaco c’era un’unica soluzione: crescere.
Come pensò a questa parola abbassò gli occhi e si strappò la parrucca dalla testa.
Si avvicinò al ruscello, si specchiò per l’ultima volta e poi si cominciò a pulire il viso. Via il rosso passione per la vita sulla bocca; via il bianco ingenuità sotto gli occhi e via la spensieratezza del rosso sulle gote e sul naso.
Scoprì che era una donna.

Sincronia dimensionale

Sarà tra breve, un attimo di calma nel vento, e un’altra donna mi partorirà
Kahlil Gibran


Silvia chiuse la porta di casa, infilò la chiave nella serratura e, come di consueto, diede due giri di chiave per sicurezza.
Era seriamente in ritardo e non aspettò l’ascensore, optò per le scale.
Era proprio buffa quella mattina: il cappotto a tre quarti svolazzava dietro di lei come fosse la mantella di un super eroe; i tacchetti delle scarpe scivolavano, sgommando alle curve dei corridoi; la borsa era tenuta nella mano destra come il testimone di una corsa a staffetta; i capelli elettrizzati, con immediato effetto strega e il trucco colante per la corsa affannata. Accadeva spesso la mattina quando si accorgeva di essere in ritardo, ma questa, in particolare le rimase impressa per tutta la vita.
Uscita dal portone, si fermò per un secondo a ricordare dove era parcheggiata la sua vettura. La vide accostata lungo il marciapiede di fronte, a pochi metri a destra; allora schizzò come un fulmine in quella direzione; conquistato il centro della strada, Silvia non s’accorse che da sinistra, ad elevata velocità proveniva un’automobile. In una frazione di secondo, lei si girò e capì che tutta la sua corsa nel tempo era stata la cosa più inutile della vita.
Una stridula frenata, la spinta in aria del suo corpo nel rispetto di tutte le leggi della fisica, un silenzio breve ma profondo e poi un tonfo imprimevano i suoi ultimi pensieri nell’anima, come l’ago di una macchinetta per tatuaggi permea l’epidermide.
Il quadro della realtà scomparve per Silvia, come se fosse una tv con il tubo catodico guasto: anche se la lasci accesa non la guardi più, in attesa che il tecnico la venga ad aggiustare. In mancanza della piena funzionalità della tv, osservi i tuoi familiari, colloqui con loro, ricordi di amarli, cucini con loro prelibatezze fuori orario, così allo stesso modo l’essenza di Silvia si girò verso se stessa e cominciò ad osservarsi e a parlarsi.

Roy e Erin si erano appena conosciuti in un locale a 5 miglia da Adelaide. Si guardavano negli occhi intensamente. Lei sapeva cosa voleva l’affascinante ragazzo, che, con la scusa di offrire una birra, si era seduto vicino a lei e alla sua amica. Erin non era andata in quel locale per rimorchiare ma solo per distrarsi un po’ dal lavoro. Lui era così invitante con lo sguardo di chi potrebbe introdurti in un mondo di fugace ma intenso sollazzo rosso passione. Era consapevole che quello non era l’incontro con l’amore della sua vita ma solo una tentazione del piacere. Lui continuava a parlare del suo viaggio alle isole Figi e con la sua caviglia sfiorava quella di Erin. Mentre Vinicius, dibatteva di politica con Jenny, nel mondo ma isolati da esso, Roy sorrideva e guardava Erin, roteando lo sguardo verso i loro amici che discutevano appassionatamente. Lui le parlava sommessamente chiedendole cosa faceva, dove abitava. E lei ad ogni sguardo, ad ogni domanda di lui si sentiva un’intensa fibrillazione ai muscoli striati dello stomaco. L’apice di questa ipertensione muscolare venne raggiunto quando Roy le chiese, con sguardo diretto e definitivo: “Sei impegnata con qualcuno?”
Erin, che fino a quel momento non riusciva a staccare lo sguardo dalle labbra carnose di lui, abbassò gli occhi.
La risposta a quella domanda era importante. Avrebbe determinato l’esplicito invito ad una notte di fluente piacere.
Erin doveva decidere nel volgere di un attimo se bere, non per idratare lo spirito, ma per soddisfare un capriccio del corpo.
E così rispose: “ No, sono libera”.
Alla parola libera affiancò uno sguardo tendenzioso, che Roy, da buon volpone maschio, raccolse al volo.
Quando due corpi sono tesi l’uno verso l’altro, gli sguardi spingono a giocare a carte scoperte. Non occorre proferire verbo, il nostro corpo si esprime in modo esatto, preciso e comprensibile.
Erin e Roy piroettarono senza rete nell’aria, in un circo vuoto, per tutta la notte.

Il padre di Silvia era seduto nella sala d’aspetto del reparto intensivo di rianimazione.
Guardava i dottori correre avanti e indietro preoccupati.
Giovanna li seguiva, chiedeva agli infermieri come andava la situazione, senza fermarsi mai.
E poi la notizia non tardò più di tanto ad arrivare. Un camicie bianco, a passo semi lento, a testa bassa, con il dito indice curvato, appoggiato sotto il naso, percorreva il lungo corridoio a sinistra della sala d’aspetto. Era diretto verso i genitori di Silvia.
La ragazza era in coma.
Silvia non soffriva. Il suo corpo era lì, su quel letto d’ospedale, ma la sua essenza si era tuffata in un mare avvolto da una luce buia. Seguiva la corrente trasportata su se stessa. La serenità del viaggio rendeva impermeabile l’essenza di Silvia da ogni pensiero e ricordo.
Un invisibile cicerone le sussurrava la via per non perdersi.

La mattina dopo Erin si svegliò, preparò la colazione, si vestì e si avvicinò a Roy che dormiva ancora.
Rimase ad ascoltare il suo respiro per qualche secondo, poi gli diede un bacio sulle labbra e andò via. Il film era terminato.

Silvia era sempre immersa nel mare avvolto da luce buia.
Ma era entrata in una enorme cavità scura in cui l’unica luce era emanata solo dalla sua essenza.
Una sensazione di sicurezza e protezione rendeva tranquilla la permanenza in quella cavità senza uscita.

Erin quella mattina si sentiva scombussolata. Questo stato durò per alcuni giorni. Andò dal dottore dopo aver fatto un test domestico di gravidanza. I suoi sospetti vennero confermati: era incinta di Roy.

I genitori di Silvia erano avvolti dal dolore e dalla profonda confusione provocata dalla scelta da prendere nel caso in cui i dottori gli avessero comunicato la morte cerebrale definitiva. A quel punto probabile.

Silvia stava bene.

Erin aveva già deciso.

I genitori di Silvia avrebbero voluto barattare la loro esistenza con quella della figlia. La morte quando ti passa accanto non va via mai a mani vuote.
Erin entrò in ospedale si adagiò su una sedia della sala d’aspetto con il capo chino e la giacca sulle braccia.
Impose a se stessa di non chiedersi cosa stava facendo; se fosse giusta o sbagliata la sua azione.
Pensò al suo lavoro, alla spesa, al film Casablanca e poi venne chiamata. Si alzò decisa e con passo svelto andava a liberare il suo ventre.

Silvia improvvisamente si sentì affogare, cadere giù nel baratro scuro. Prima lentamente poi acquistando sempre più velocità.

Erin si sdraiò sul lettino dopo la prima puntura pensò che ormai era fatta, non si poteva tornare più indietro. E così fu.

Silvia precipitò in un vortice nero e rosso; superato il vortice scorse una luce e cadde nell’ultimo tratto silenzioso. Mentre si avvicinò alla luce sentì un sussurro di voci. Arrivò alla luce e la oltrepassò.
Un rumore squarciante la spinse ad aprire gli occhi: si era finalmente svegliata.

La finestra

E’ il 1984. La serranda di una finestra al quinto piano si apre.
E’ il primo giorno di scuola superiore di Giovanna: la finestra è della sua camera.
Giovanna si prepara, è molto emozionata; la radio sta trasmettendo Sexcrime. E’ piena di speranza, ha un’intera vita davanti a sé e vuole percorrerla con amore e gioia.
La madre la chiama; ormai è ora di andare alla nuova scuola.
Giovanna esce.
La madre fa scorrere giù la serranda.

1987: la serranda si alza. Giovanna è grande, ora ha 17 anni. I ragazzi le telefono a casa ma lei mostra chiaramente che non le interessa fare la fidanzatina. Le piacciono i ragazzi ma non certo quelli intorno a lei; sogna gli amori impossibili e per il momento sta bene così.
Viene Sabrina, una delle sue due migliori amiche, le racconta di un ragazzo che le piace e poi ascoltano insieme l’ultimo LP di M. Jackson.
Dopo aver volato con Bad, mettono su Thriller e ballano I Want be startin’ something, mentre Tamara, l’altra cara amica, le guarda prendendole in giro.
Poi sognano, sognano, sognano.
Giovanna prende il microfono lo attacca allo spinotto dello stereo e insieme a Tamara e Sabrina registrano le loro voci mentre cantano, recitano, scherzano.
E’ sera: Tamara chiude la finestra e cala la serranda.

1990: Si rialza la serranda e appare Giovanna, visibilmente più grande. Il suo sguardo e più maturo e consapevole. E’ un pomeriggio d’estate. Suona il campanello: un ragazzo. Lei lo invita ad entrare in camera sua, gli dice che non ci sono i suoi genitori; sono partiti.
Si baciano e …
Dopo essere stati insieme, lui le chiede:
Vuoi diventare un avvocato?
No!
Risponde lei.
Allora perché ti sei iscritta a Giurisprudenza?
M’interessa prendere una laurea.
Cosa ti piacerebbe fare?
In realtà io voglio diventare un’attrice.
Lui la guarda e sorride allora lei si alza quasi seccata e riabbassa la serranda.

1992: Giovanna alza la serranda e si stira allargando le braccia; poi torna a studiare: sta preparando un esame.
Viene a trovarla Tamara che è appena tornata dal suo viaggio di nozze.
Giovanna è dispiaciuta, perché in fondo la sua amica si è sposata troppo presto!
Dopo un po’ entra anche Sabrina in camera e chiude guardinga la porta e poi esclama:
Festeggiamo?
Allora Tamara caccia il fumo dalla tasca.
Giovanna e Sabrina stanno preparando una recita per uno spettacolo in una sagra paesana. Sembra che nulla possa cambiare, che tutto sia fisso, fermo, stabile.
Nonostante Tamara si sia sposata resta a sognare con le sue amiche. Le tre ragazze ascoltano la musica e hanno ancora la forza di ergersi in volo con la mente. Ma squilla il telefono: è il marito di Tamara.
Deve andare ora.
Giovanna e Sabrina rimangono sole a sognare.
Sabrina si alza, fa un sospiro e chiude la serranda.

1995: Si rialza la serranda. C’è aria di festa.
Giovanna si è laureata, Tutti sono allegri ma Lei no.
Sabrina, mentre si congratula con lei, le dice:
Allora ci salutiamo adesso, parto domani mattina.
La sua migliore amica va in Inghilterra per seguire il suo ragazzo e non sa quando tornerà, se ritornerà.
Giovanna diventerà un avvocato oppure no.
Diventerà un’attrice oppure no.
Diventerà qualcosa oppure no.

1997: Si rialza la serranda. Giovanna ormai è proprio una donna.
Come il suo primo giorno di scuola superiore la madre la chiama e lei si prepara. Mentre si sta vestendo l’occhio le cade su una foto scattata da suo padre, in cui si vedono lei e Sabrina ballare e sullo sfondo Tamara stravaccata sul letto che le guarda.
Si gira apre l’armadio, tira fuori la toga e la fissa per un attimo.
Dai altrimenti fai tardi!
Le dice la madre.
Giovanna allora esce dalla camera: nel momento stesso in cui la porta viene chiusa la serranda scende di botto da sola: si è rotta.

Storia di una persona vuota

Ogni mattina apriva le palpebre alle 8.00 in punto. Scattava seduto sul letto, sbadigliava e si voltava verso la sveglia. La sua grande sfida consisteva nel bloccarla prima che suonasse. E ci riusciva sempre!
Spostava le coperte e calava i piedi sulle pantofole. Si alzava e andava ad orinare. Poi faceva le solite abluzioni, si guardava distrattamente allo specchio e tornava in camera per vestirsi. Indossava gli abiti preparati con cura la sera prima, prendeva le chiavi, il cellullare ed usciva di casa. Durante questi 10 minuti prima di raggiungere l’ascensore, pensava alle commissioni che doveva svolgere quel giorno in ufficio.
Raggiunta l’automobile saliva e partiva.
Durante il tragitto incontrava sempre tanto traffico per la città, ma è risaputo che ci si abitua a tutto.
Accendeva la radio per ascoltare il notiziario.
Arrivato a destinazione cercava un parcheggio e non lo trovava. Poi esclamava sistematicamente: ” Siamo troppi sulla terra!”
Girava ancora una volta intorno all’isolato senza successo e diceva: ”Ma non potete andare con l’autobus?”
Finalmente dopo appena 15 minuti trovava posto e si fiondava per occuparlo. Scendeva, chiudeva la vettura e si recava al lavoro.
Entrava nell’edificio dell’azienda e pensava: “Neanche il tempo per fare colazione!”
Due minuti alle nove e poi sarebbe stato tardi per timbrare il cartellino. Perciò si precipitava dentro, salutava automaticamente i colleghi e timbrava il cartellino. Andava su in ufficio e diceva al suo taciturno collega: “Vado a fare colazione torno subito.”
Scendeva per andare al bar dove incontrava qualcuno per consumare insieme la colazione, cornetto e cappuccino, velocemente parlavano delle ultime notizie, e una volta uno, una volta l’altro pagavano.
Ritornava in ufficio, riparlava con il collega, se questi però era di buon umore, ma era difficile che fosse così, delle ultime notizie e poi cominciava a lavorare tra piccole pause e noia fino alle due. Al termine delle ore di lavoro raggiungeva l’automobile e tornava a casa.
Una volta in casa, accendeva la Tv, si preparava il pranzo e poi mangiava.
Finiva, tra una cosa e l’altra alle 15.30, compreso lavare i piatti, poi si sedeva sul divano, mentre guardava la tv si stendeva e si addormentava.
Si alzava alle 16.30 andava in bagno per il bisogno finale. Si sciacquava il viso e usciva in alternativa per:
acquistare vivande per il giorno seguente;
andare a trovare la madre;
andare a prendere una videocassetta in noleggio.
Solo eccezionalmente usciva per l’acquisto di un capo di abbigliamento o altro oggetto.
Il sabato e la domenica non lavorava ma si svegliava sempre prima del trillo della sveglia. Raramente si riaddormentava. Ma se lo faceva solo per pochi minuti.
Comunque il sabato si alzava accendeva la tv e si dedicava alle pulizie e alla grande cucina, se non era invitato a pranzo dalla mamma.
Il sabato sera in alternativa:
cenava dalla mamma e poi si guardavano il programma della Rai legato alla lotteria del 6 Gennaio;
noleggiava una videocassetta;
In media una volta ogni due mesi veniva invitato a cena da un amico di vecchia data sposato e con due fastidiosissimi ragazzini.
Gongolava quando ogni due o tre mesi si organizzavano le cene con i colleghi d’ufficio, durante le quali spesso si parlava di lavoro e c’era anche la possibilità di stringere amicizie anche se a lui non accadeva.
Due o tre volte all’anno poteva risolvere la domenica con un invito ad un matrimonio o comunione, magari a un Battesimo. In queste feste sua madre coglieva sempre l’occasione per presentargli qualche ragazza.
Più di una volta questi incontri diedero buoni frutti. Infatti una volta ne conobbe una con la quale si frequentò per sei mesi. Andavano al cinema insieme, a cena, a teatro. Riuscirono a consumare ripetuti amplessi, ma quando lei cominciò a parlare di vivere insieme, lui si sentì preoccupato e soffocato. Così nei giorni seguenti non rispose più al telefono, né al citofono, evitò i posti frequentati anche da lei, limitando ulteriormente il suo mondo, trasformato ormai in gabbia. E per un periodo accorciò le visite alla madre.
Nel mese di Agosto piombava spesso l’angoscia; dopo aver sognato per tutta l’estate di partire per un viaggio organizzato, alla fine non trovando un amico, sceglieva per disperazione di accompagnare la madre alle terme.
Quell’anno il forte desiderio di visitare il Portogallo gli fece toccare il fondo. Dopo aver proposto a tutti, persino ad un suo amico con seri problemi alla proposta, che rifiutò perché doveva andare a Lourdes con un gruppo catecumenale, si fece coraggio e chiese alla mamma di accompagnarlo.
Per convincere la vecchia, che sulle prime non voleva rinunciare alle cure, la allettò con la ambita meta al santuario di Fatima.
La vecchia accettò.
Partenza ore 4.30 con aereo di linea diretto a Lisbona.
Era la prima volta che la dolce nonnetta prendeva l’aereo, soffriva di reflusso gastrico e al decollo ebbe un attimo di panico che provocò un turbamento intestinale, che sfociò in diarrea. A nulla valse la tempestività del figlio nel portarla in braccio al gabinetto. Appena ripulito il danno, la madre ebbe nuovamente fame e l’hostess le offrì così un invitante spuntino, ma dopo alcuni minuti, a causa di una violenta perturbazione vomitò tutto.
Alla fine arrivarono nella fantastica Lisbona.
Alle 6.00 del mattino il vento costante di Lisbona era più che fresco e la vecchietta prese subito un colpo di freddo ai reni. salirono su un pullman senza gabinetto e ogni 15 minuti la mamma doveva orinare, dovendo trattenere, ogni fossa che il pullman prendeva senza riguardo per il figlio, urlava a voce alta:
“ Io non ci volevo venire! Tutta colpa tua. Io volevo andare alle terme!”
Arrivati in Hotel mise a riposare la madre in camera e finalmente uscì per visitare la città.
Passeggiava nel suggestivo quartiere del Chiado, ascoltando in lontananza malinconici canti fados, quando gli si avvicinò, amichevole ed intrigante un tipo del posto che sorridente gli disse:
“Italiano?”
“Si”
Il tracagnotto avventore, circospetto, cacciò una mano con sopra erbetta secca e con l’altra indicava che serviva a fumare portando le due dita alla bocca, dicendo continuamente: "Tranchillo! No problema"
Lui reagì sconvolto:
“Eh! No!”
Il gretto venditore di fumo, intelligente, prima rimise in tasca le mani, poi si scusò con esagerata umiltà e gli propose di accompagnarlo per la città, gratis.
Lui ci pensò e poi, curioso e ingenuo, accettò volentieri.
Girando per la città, per ore ed ore, all’imbrunire venne accompagnato dal suo cicerone davanti ad un pornoshop; si stava quasi convincendo ad entrare, eccitato dalla nuova sistuazione, lontano da tutto ma gli venne improvvisamente in mente il volto della madre e rifiutò, preso da un attacco di senso di colpa.
Allora il tipo, senza sosta, lo portò in un transex club ma lui lo guardò quasi offeso e gli disse puntando il dito molliccio in avanti:
“Non ti permettere più Eh! Forse è il caso che prosegua da solo.”
“ No senior!”
“Và, và,và!”
Giunti all’altezza di un vicoletto buio,lo strano accompagnatore gli diede uno spintone e lo buttò contro un cassonetto dell’immondizia, lui sbattendo violentemente la testa, perse i sensi, e l'energumeno non esitò a rubargli il portafogli.
Dopo una mezz’oretta un gruppo di goliardiche ragazze strafatte di tabacco e Bacco del Kansas in vacanza, passando di lì, si fermarono a guardarlo e una di loro propose di fargli uno scherzo: truccarlo e vestirlo da donna. Una gli sistemò il viso con del maquillage veloce, un’altra gli mise indosso la sua casacca acconciandogli il suo foulard Giallo e Verde in testa e poi andarono via cantando e pogando per la strada.
Dopo alcune ore lui si risvegliò stordito, sentendo una voce che chiamava Amanda.
Si alzò e cominciò a camminare per la città trasecolato e senza memoria fino a quando un gruppo di ambigue ragazzone lo salutò. Così lui tornò indietro, fermò le simpatiche tipe e chiese loro:
“ Mi conoscete?”
“No amore ma se vuoi molto volentieri, io sono Drusilla lei è Carol e lei MoMy. Tu come ti chiami amore?”
Ci pensò un pò e poi rispose: “ …Amanda”.

Nel frattempo nella stanza d’albergo la madre si svegliò di colpo, dopo aver dormito ininterrottamente per 24 ore perché stava soffocando e chiedeva sommessamente:
“Aiuto!”
Le sue ultime parole disperate prima di morire furono con un alito di fiato:
“Le terme!”
Subito dopo morì.
La mattina seguente, le donne delle pulizie aprirono la stanza della madre e credendo che stesse dormendo, la richiusero piano piano.

Intanto "Amanda" si risvegliò il pomeriggio alle 15.00 circa, in un accogliente salottino, tutto circondato e ornato di drappeggi, stoffe colorate vivacemente.
Si guardò intorno e quel posto le era completamente sconosciuto e familiare allo stesso tempo.
Il divano sul quale era adagiato era comodissimo, di colore blu e lilla a fantasia.
Di fronte c’era un tavolino di stile indiano, ornato con delle pietre colorate e intarsiato; le pareti della stanza erano state dipinte di lilla pastello.
Un costante, a tratti più fitto, dolore all’ano, le fecero ricordare la folle notte trascorsa tra sesso, alcool e cocaina con le sue nuove amiche.
Compiaciuto del grande successo ottenuto durante la festa, dopo essere andata al gabinetto e aver fatto un lungo bidè, andò in cucina a preparare la colazione.
“Ciao tesorino candido!”
Le tre nuove amiche, nonché padrone di casa, in tenuta notte, con vestaglie di tulle, contornate da boa di piume viola, giallo e turchese, con ciabattine di velluto con pon pon e tacchetto, le diedero il meraviglioso buongiorno.

Morale: sembra proprio che a volte ci vuole una sonora bastonata da perdere i sensi per capire chi sei veramente e quello che vuoi.
Se si potesse portare con sè un pizzico di adolescenza nella vita sarebbe già una vittoria!

Cera e organza


C'era vita e ora non c'è più.
Quando piango
non mi dire che Amore è bello,
sento troppo dolore.


Dio mio,
ma tu esisti o sono solo io?
Il mio vento folle spinge al baratro il cervello;
la carne viene e mi illude.
Pace geme d'incanto.


Chi sono gli altri?
Rumori nell'anima!
Quiete acqua azzurra.
Torrente in tumulto.


Un cuore nero di porfido
scaraventato nel Nulla.
Cruda macilenta passione.
Giorni grigi e non sapevo perchè.


Sono qui e mi basta.
Questo non lo ricordavo più!
Ora e mai sono la stessa cosa
in un dì andrò via anch'io,
tempesta tumultuosa e rami spogli.


Ibridi imbrogli ho cercato e patito
ma ora non li ricordo più.
Sulle rive del Piacere sovrano
di cera e organza
apostoli in croce
per volere del tiranno.


Nulla è fisso per sempre.
Rollè di carne tra i portici
del mondo, godere le gioie
della vita, oh povera me, è dura.
ho paura del mio Essere Naturale
e finge il destino che non sia così.


Siamo soli
tutto è inganno e
pur potrebbe sparire.